Il danno dei macrolesi: la giurisprudenza della Cassazione sulle spese di assistenza domiciliare e per protesi ad “alta tecnologia”

Il danno dei macrolesi: la giurisprudenza della Cassazione sulle spese di assistenza domiciliare e per protesi ad “alta tecnologia”
16 Marzo 2020: Il danno dei macrolesi: la giurisprudenza della Cassazione sulle spese di assistenza domiciliare e per protesi ad “alta tecnologia” 16 Marzo 2020

La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 526/2020, ha affrontato il tema del risarcimento delle “spese di assistenza domiciliare” dei “macrolesi”, una voce di danno che non di rado è estremamente onerosa nell’economia della liquidazione dei danni gravi alla persona.

La Corte, decidendo un ricorso proposto contro una sentenza emessa in sede “di rinvio”, ha riaffermato, puntualizzandoli, alcuni principi di diritto che aveva già enunciato nella decisione (Cass. civ. n. 7774/2016) con la quale aveva cassato la sentenza d’appello.

Le due decisioni in parola operano una fondamentale distinzione tra il “danno patrimoniale permanente passato”, consistente nelle spese che il danneggiato abbia già sostenuto per essere assistito, e il “danno permanente futuro”, consistente nella “spesa periodica” per assistenza domiciliare da sostenere “vita natural durante”.

Quanto al primo, nella sentenza n. 7774/2016, la Corte aveva precisato che si tratta di un “danno emergente” già verificatosi, perché riguardante le spese sostenute nel “periodo di tempo compreso tra il sinistro e la data della liquidazione”, con la conseguenza che “trattandosi di un pregiudizio che si assume già avvenuto, il giudice non può prescindere dall'accertarne la concreta sussistenza, senza potere ricorrere a "ragionevoli previsioni", consentite… solo con riferimento al danno futuro”.

L’esistenza del danno in questione, quindi, non essere provata presuntivamente, né in virtù di una liquidazione equitativa, mentre , una volta che il danneggiato abbia provato la sua effettiva sussistenza, può giovarsi della prova presuntiva ovvero della liquidazione equitativa del risarcimento, quanto l’ammontare del danno sia difficilmente dimostrabile.

In pratica, con riguardo all’anzidetta spesa “delle due l'una: o il danneggiato dimostra di averla sostenuta (anche attraverso presunzioni semplici, ex art. 2727 c.c.), oppure nessuna liquidazione può essere consentita. Il danno per spese di assistenza, infatti, quando si assuma essere già maturato al momento della liquidazione, è rappresentato dalla spesa sostenuta, non dalla necessità di sostenerla”.

Al contrario, la sussistenza di un “danno permanente futuro” per spese di assistenza si può presumere “sulla base dell'id quod plerumque accidit, di fatti notori e di massime di esperienza: tra le quali, nel nostro caso, quella secondo cui chi non è in condizioni di provvedere alle proprie esigenze personali normalmente ricorre all'ausilio di un infermiere o di un assistente”.

E, a questo proposito, le decisioni citate fanno un’altra precisazione, affermando che tale danno futuro “non può essere liquidato semplicemente moltiplicando la spesa annua per il numero di anni di vita stimata della vittima, ma va liquidato o in forma di rendita; oppure moltiplicando il danno annuo per il numero di anni per cui verrà sopportato, e quindi abbattendo il risultato in base ad coefficiente di anticipazione; od infine attraverso il metodo della capitalizzazione, consistente nel moltiplicare il danno annuo per un coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie”.

Non solo.

Dal “credito risarcitorio” così liquidato vanno detratti “sia i benefici spettanti alla vittima a titolo di indennità di accompagnamento (art. 5 I. 12.6.1984 n. 222), sia i benefici ad essa spettanti in virtù della legislazione regionale in tema di assistenza domiciliare, legislazione che in virtù del principio jura novit curia il giudice deve applicare d'ufficio, se i presupposti di tale applicabilità risultino comunque dagli atti”.

Quanto alla prima, la sentenza n. 7774/2016 ha osservato che, considerato il disposto dell’art. 5 della l.n. 222/1984, si tratta di un “emolumento volto a ristorare un pregiudizio patrimoniale: giustappunto, quello consistente nella necessità di dovere retribuire un collaboratore od assistente per fronteggiare le necessità della vita quotidiana”, per cui “la percezione di tale emolumento incide dunque sulla misura del danno risarcibile, per il semplice fatto che lo elimina in parte”.

E “considerazioni analoghe” vanno fatte per i “benefici” eventualmente previsti dalla “legislazione regionale” a favore del danneggiato, comprendendo in esse i contributi in denaro, come i “voucher socio-sanitari” erogati dalla Regione Lombardia, ovvero “l'assistenza domiciliare prestata dal servizio sanitario nazionale e regionale” direttamente a mezzo di proprio personale.

Argomento contiguo a quello appena trattato è quello del risarcimento delle spese per protesi richiesto da quegli amputati che, come sempre più frequentemente accade, alleghino la necessità di ricorrere ad apparecchi protesici “ad alta tecnologia”, e cioè altamente performanti, con la motivazione di voler continuare a praticare sport o attività del tempo libero che assumono di aver esercitato precedentemente alle lesioni subite in conseguenza di un incidente.

Ciò sul presupposto che protesi di tal genere sono assai più costose rispetto a quelle ordinariamente erogate dal Servizio Sanitario Nazionale in regime di gratuità.

Al riguardo si è pronunciata un’altra recente ordinanza della Suprema Corte (la n. 5821/2019), rigettando il ricorso proposto dal danneggiato contro una decisione con la quale la Corte d’appello di Cagliari gli aveva negato “il diritto al rimborso delle protesi diverse da quelle fornite dalla Asl”.

Il ricorrente censurava tale decisione “per non aver recepito le risultanze della CTU che aveva concluso per la non adeguatezza delle protesi fornite, allo svolgimento di attività sportiva e per la necessità di integrare le stesse protesi con componenti strutturalmente e tecnologicamente avanzate, non rientranti tra le prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale”.

Vi era dunque una CTU medico-legale che aveva riconosciuto la necessità di dette protesi e l’impossibilità di ottenerle gratuitamente dal S.S.N..

Ciò nondimeno, la Cassazione ha disatteso la doglianza, osservando che “la sentenza impugnata… non ha inteso negare le risultanze della CTU ma ha rigettato la domanda per mancata allegazione e prova del danno”.

Infatti, il danneggiato “per ottenere il risarcimento del danno futuro, consistente nella spesa per protesi non fornite dalla Asl, avrebbe dovuto allegare e provare” anzitutto “il fatto che, con certezza, prima dell'incidente avesse svolto attività sportiva e che intendesse continuare a farlo anche all'esito dell'incidente”.

Secondariamente avrebbe dovuto dimostrare che “qualora… avesse scelto un modello protesico non incluso nel nomenclatore allegato al regolamento [d.m. n. 332/1999], e a livello terapeutico se ne fosse ravvisata la necessità”, non ne avrebbe potuta ottenere la prescrizione da parte di “un medico specialista del servizio sanitario”.

Ciò in quanto il d.m. n. 332/1999, in tal caso, non esclude “la possibilità di ricevere la prestazione”, subordinandola però a tale prescrizione.

Infatti, l’art. 1, comma secondo del predetto regolamento, prevede che agli assistiti possano essere forniti non già solo dispositivi “di serie”, ma pure altri “costruiti su misura” o implicanti “applicazioni” personalizzate su prescrizione di un medico specialista, per cui tale possibilità non è esclusa a priori, dovendo perciò la sua impercorribilità essere provata dal danneggiato.

In conclusione, il risarcimento della spesa da sostenere per protesi ad “alta tecnologia” è condizionato non solo all’accertamento medico-legale ella loro necessità, ma alla prova dei fatti anzidetti, di cui è onerato il danneggiato.

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